Identificazione proiettiva
L’Identificazione Protettiva è un meccanismo di difesa psichico descritto per la prima volta da Melanie Klein nel 1946, con il significato di operazioni mentali inconsce del bambino con cui questi fantastica di introdurre la propria persona o parti di sé all’interno del corpo materno per possederlo, controllarlo o danneggiarlo.
Questa difesa può in realtà generare più inquietudini di quante ne elimini: infatti può indurre l’ansia inconscia di essere perseguitato dall’altro, di ricevere da questo lo stesso trattamento a lui riservato oppure di perdere nell’altro le parti buone di sé.
Secondo Klein, queste fantasie sono tipiche soprattutto della fase schizoparanoide.
Il meccanismo dell’Identificazione Protettiva può poi persistere per tutto l’arco della vita, prevalentemente in individui la cui organizzazione psichica si è attestata a livelli primitivi dello sviluppo, nei quali non è ben definita la distinzione dei confini interpersonali ed intrapsichici.
Il concetto di Identificazione Protettiva è entrato a far parte del patrimonio di tutti gli psicoanalisti, non solo di quelli che si riconoscono nel modello kleiniano, ed è inteso come un meccanismo di difesa (per altro, prevalentemente fallimentare) che illude il soggetto di poter controllare l’altro inducendolo ad avere comportamenti e atteggiamenti corrispondenti alle proprie aspettative, negando in tal modo i propri vissuti di impotenza; oppure che svuota progressivamente il soggetto dei suoi contenuti affettivi e ideativi, finendo con l’impoverirlo.
Su queste basi si può innescare una dinamica interpersonale perversa, per cui vi è confusione circa la reale appartenenza dei sentimenti negativi («chi ha iniziato per primo»), e il partner medesimo può collusivamente e inconsciamente contribuire al mantenimento dell’equivoco (fenomeno noto come controidentificazione proiettiva).